L’acqua non fa distinzioni. Non chiede permessi, non impone ruoli, non conosce gerarchie. Eppure, fuori dalla vasca, le donne nello sport si sono sempre scontrate con una realtà ben diversa.
L’8 Marzo è un’occasione per ricordarlo: il nuoto femminile non è solo questione di cronometri, ma un continuo atto di affermazione.
Affermare il diritto a gareggiare senza essere oggetto di sguardi che giudicano il corpo prima della performance. Affermare il diritto a tornare in piscina dopo una gravidanza senza essere considerate fuori tempo massimo. Affermare che una ragazza, ovunque sia nata, possa nuotare non per sfuggire a qualcosa, ma semplicemente per il piacere di farlo.
Per decenni, il corpo femminile è stato trattato come un campo di battaglia.
Troppo fragile per competere, troppo potente per essere accettato quando dimostrava di poter vincere.
Troppe volte, nello sport, è stato considerato sacrificabile: quando un’atleta restava incinta, si dava per scontato che la sua carriera fosse finita. Quando invecchiava, la si accantonava senza appello. Ma qualcosa sta cambiando.
Le donne stanno riscrivendo le regole. Sarah Sjöström, che oggi affronta la sua prima gravidanza con lo sguardo già rivolto a Los Angeles 2028, dimostra che un’atleta può essere madre senza dover rinunciare ai suoi sogni olimpici. Dana Vollmer, che ha vinto un oro olimpico dopo aver dato alla luce suo figlio, ha sfidato il tabù che per anni ha tenuto le madri lontane dalla vasca. E dietro di loro ci sono centinaia di nuotatrici meno famose, meno celebrate, ma ugualmente coraggiose: donne che hanno ripreso gli allenamenti tra una poppata e l’altra, che hanno chiesto di avere spogliatoi adatti alle loro esigenze, che hanno lottato per un sistema sportivo che non le trattasse come atlete a tempo determinato.
Ma la vera lotta non è solo quella contro le discriminazioni visibili. È anche la battaglia silenziosa che si combatte dentro ogni corpo.
Il corpo che cambia nell’adolescenza, che cresce fuori dagli standard imposti, che si gonfia e si allunga senza chiedere il permesso.
Il corpo che diventa il nemico quando l’insicurezza sfocia in un disturbo alimentare. Troppe atlete, troppe ragazze, hanno vissuto sulla propria pelle il prezzo di uno sport che ancora fatica ad accettare che la forza può assumere molte forme.
La narrazione dello sport non è mai neutra, e troppo spesso, quando a raccontarlo sono le donne, il focus si sposta altrove.
Si parla di cosa indossano, di quanto sono giovani, belle o attraenti, piuttosto che della loro competenza, della loro capacità analitica, della loro esperienza.
Troppe volte, una donna che commenta una gara, che scrive di sport, che siede in una redazione o dietro un microfono, deve giustificare il proprio ruolo, dimostrare di meritarselo, fronteggiare pregiudizi che i colleghi uomini non devono affrontare.
Eppure, le donne che raccontano lo sport stanno tracciando una strada, occupando spazi che fino a pochi anni fa sembravano inaccessibili. Giornaliste, telecroniste, opinioniste che non parlano solo di sport femminile, ma di sport, senza etichette. Perché lo sport appartiene a tutti, e la sua narrazione non può più essere un monologo maschile.
Il femminismo in una società patriarcale è come nuotare in una infinity pool: non arrivi mai da nessuna parte, ma ti fai le spalle sempre più forti, e quando esci dall’acqua, ogni tanto, qualche gara la vinci.
E allora la parità di genere nello sport non significa eguaglianza in senso assoluto, ma pari opportunità di accesso: agli sponsor, alle borse di studio, al professionismo, alla possibilità di guadagno.
Significa non dover scegliere tra una carriera agonistica e la propria salute. Significa non doversi giustificare per il proprio corpo.
Le donne sfidano le regole non scritte, quelle che impongono ancora oggi un’idea di femminilità compatibile solo con l’estetica e mai con la forza. Le adolescenti che resistono alle pressioni di chi dice loro che un corpo forte non è abbastanza bello. Le atlete che si rifiutano di aderire ai canoni imposti, di abbassare la voce, di farsi da parte.
Non è più tempo di accontentarsi di spazi concessi.
Le donne hanno conquistato la vasca a suon di record, e non hanno intenzione di fermarsi.
L’8 Marzo non è solo un giorno per ricordare quello che è stato, ma per immaginare quello che ancora può essere: un nuoto che non sia più diviso tra uomini e donne, ma tra atleti. Un nuoto dove la maternità non sia una parentesi, ma una possibilità. Un nuoto dove nessuna ragazza debba più scegliere tra essere forte ed essere accettata.
Perché l’acqua non fa distinzioni. E allora perché dovremmo farle noi?