Qualche giorno fa, uscito dall’acqua dopo 2 h 45 min e 12 km, una velocista mi fa: a cosa pensavi mentre nuotavi?
Ho risposto con questa certezza: “Ogni volta la fatica non è mai la stessa, si evolve sempre”
Sensazioni diverse mi violano, ricordi nuovi si sedimentano.
Qualcuno suggerisce di spegnere il cervello, switchare from on to off come se noi atleti fossimo dei robot umanoidi.
Alcuni ti consigliano di mettere in loop nella testa il ritornello dell’ultimo tormentone. In realtà la canzone ti penetra prima ancora che tu lo decida.
Qualcun altro ti dice di guardare le facce indurite dei tuoi vicini di corsia e così distrarti.
Quelle facce che sembrano sempre meno accartocciate rispetto a quanto pensi sia la tua.
Più volte e per troppi anni mi sforzavo di non pensare a nulla.
Usavo tutta la buona volontà possibile per zittire il rumore all’interno del cranio.
Credevo con presunzione di fermare l’inevitabile, proprio come non è possibile bloccare un’eruzione mettendo un coperchio sulla bocca del vulcano.
Quell’organo non si addormenta mai, nemmeno quando hai la saliva che scivola dalla bocca ed i muscoli flaccidi sul materasso.
A cosa pensavo ?
Pensare mi sembrava fuori luogo mentre avevo i muscoli che friggevano, perciò ho preferito sentire.
Il vento di marzo che taglia la faccia e rispedisce indietro il braccio, il respiro dell’agonia ovattato dall’acqua, il cuore che martella contro lo sterno.
Tutte sensazioni a tempo determinato, e forse per questo da godere fino all’ultima spinta, fino all’ultimo colpo, finché il sangue continua a pulsare.